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MOUSSE Magazine, 2007
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NOT (ONLY) FOR PROFIT / N.Y.
di Cecilia Alemani (In italian)

Gli spazi alternativi hanno da sempre avuto un ruolo dominante nella cultura underground della scena artistica newyorchese. Dai primissimi not-for-profit come il 112 Greene Street, un luogo di collaborazione artistica che negli anni settanta costituiva il polo gravitazionale di downtown Manhattan, agli spazi gestiti da artisti come il ristorante Food di Gordon Matta-Clark, fino ad ABC No Rio, un centro sociale fondato negli anni Ottanta e ancora esistente, questi spazi hanno popolato da ormai quattro decenni le strade dei quartieri più disagiati, fungendo da piattaforme di ricerca e sperimentazione per tante generazioni di artisti emergenti. Si tratta di spazi non devoti al mercato, ma solo alla presentazione di opere e a iniziative collaterali come concerti e letture.Luoghi di incontro e di elaborazione artistica, essi hanno costituito una vera e propria alternativa al conformismo imperante della società capitalistica americana, fungendo da valvole di sfogo per un discorso critico attorno a questioni impellenti come quelle legate all’identità sessuale, alla razza, all’appartenenza di classe e alla diffusione dell’AIDS.

Se fino agli anni ottanta questi spazi erano veri e propri laboratori di cultura e pensiero, nell’ultimo decennio il loro impatto è andato diminuendo, anche a causa della rapida diffusione della tipologia della galleria commerciale. Da qualche anno però sta prendendo piede un nuovo modello di spazio espositivo che molti vedono come la diretta eredità di American Fine Arts, una galleria indipendente vagamente anarchica e a suo modo alternativa che ha chiuso nel 2003 dopo la morte del suo fondatore Colin de Land. Soprattutto nel vecchio quartiere ebraico del Lower East Side negli ultimi cinque o sei anni è comparso, tra sinagoghe e ristoranti cinesi, un gruppo di spazi che hanno il merito di costituire un’interessante alternativa alla spettacolarizzazione dell’arte di Chelsea, e che si stanno imponendo fortemente all’attenzione di pubblico e critica. Si tratta di forme fluide, di dimensioni ibride a metà tra lo spazio not-for-profit e la galleria in senso più classico. Del primo condividono un aspetto più derelitto e dimesso e una posizione geografica che privilegia zone come il Lower East Side o Soho rispetto alla centrale Chelsea; dalla seconda invece assimilano la natura commerciale, con tanto di partecipazione a fiere nel circuito del mercato internazionale. La loro forza sta nel rinnovamento del linguaggio della galleria: più spazio è dato a eventi sperimentali come performance, dibattiti e installazioni site-specific. La loro programmazione è discontinua e spesso disorganizzata: è sempre un’impresa sapere il giorno dell’opening data la quasi totale assenza di pubblicità. Ma quello che colpisce di più è l’aria di comunità che si respira in questi spazi: che siano più rivolti alla musica, alle ultime tendenze artistiche, o all’indagine socio-politica, sono sempre connotati da una forte natura di aggregazione, tanto da fungere da veri e propri punti di ritrovo per varie comunità (aspetto che è completamente assente a Chelsea).Uno degli esempi più evidenti di questo nuovo modello ibrido di spazio espositivo è la galleria Orchard. Aperto nell’aprile del 2005 in Orchard Street, una delle strade principali del Lower East Side, Orchard si presenta come un organismo bifronte, dal look alternativo dato sia dalla posizione decentrata rispetto a Chesea sia dalla programmazione radicale e sperimentale, ma con un’anima commerciale. Orchard è un progetto temporaneo, che durerà solo tre anni. I suoi fondatori, che ne influenzano la natura intellettuale e sofisticata, sono artisti (tra di loro due importanti esponenti dell’Institutional Critique degli anni Ottanta come Andrea Fraser e Christian Phillip Müller), curatori, critici, storici dell’arte e registi. Dalla sua apertura un anno e mezzo fa, si sono alternate mostre di gruppo normalmente dal tema politico e spesso desuete, come quella attuale sul Concettualismo Socialista Polacco degli anni settanta. A esse si intervallano ricostruzioni di progetti artistici storici o mai realizzati come un film di Michael Asher, e performance come quella di Christian Phillip Müller nelle le strade del quartiere. L’aspetto singolare di questa impresa risiede nel tentativo di criticare quel sistema dell’arte commerciale attraverso le strutture stesse che lo compongono, ovvero funzionando come una vera e propria galleria. Inoltre la programmazione è notevolmente volta al passato più che al futuro, e tende a dare spazio ad artisti meno giovani rispetto alla moda predominante tra gli spazi alternativi, quella cioè di funzionare da piattaforme di lancio per giovani artisti emergenti. Il programma che ne risulta è quindi innovativo e di ricerca, anche se a volte l’apparato concettuale che pervade la galleria predomina pesantemente sul risultato, spesso oscuro e cervellotico.Poche strade più a sud, ormai a Chinatown, si trova la nuova location di Reena Spaulings Fine Art, una galleria per certi versi simile a Orchard (anch’essa dall’aspetto malandato ma allo stesso tempo commerciale) ma che ultimamente ha richiamato molta attenzione sulle pagine dei giornali e tra gli addetti ai lavori, flirtando in maniera più smaccata con il sistema di celebrità e moda che sembra comporre il nucleo dell’arte contemporanea a New York. Quando nel 2004 Emily Sundblad, un’artista svedese, giunse a New York, come molti dei suoi colleghi internazionali dovette risolvere la situazione del visto. Non trovando altre soluzioni, Emily decise di aprire uno spazio espositivo nel Lower East Side come escamotage alle pressioni del governo che per il visto richiede un indirizzo permanente. All’inizio la galleria non aveva nome, ma dopo pochi mesi, e dopo l’inizio di una partnership tra Emily e il critico d’arte John Kelsey, venne chiamata Reena Spaulings Fine Art. Nello stesso periodo apparve un libro intitolato anch’esso Reena Spaulings (Semiotexte, 2004), scritto da Bernadette Corporation, un collettivo di artisti fondato nel 1994, che in questi ultimi anni ha creato un’etichetta di moda, una casa editoriale, uno studio cinematografico a Berlino e una serie di film che hanno fatto il giro del mondo tra fiere e biennali. Il romanzo è scritto da decine di persone diverse, principalmente usando internet, come in una sorta di catena di assemblaggio simile a quella che si usava un tempo per scrivere i copioni di Hollywood. Dopo aver dato un nome alla loro galleria, il duo Sundblad e Kelsey ha deciso di creare un nuovo personaggio fittizio, questa volta un’artista, che si chiama anch’essa Reena Spaulings. Uno dei suoi lavori più famosi è una serie di bandiere fatte a mano e ricoperte da vari motivi e disegni, come dei mattoni o delle macchie di vino rosso. Dietro le sembianze fittizie di Reena si celano, non c’è da stupirsi, proprio i due fondatori della galleria, che come in un ciclo di continua reincarnazione vengono invitati da altre gallerie newyorchesi nonché da importanti istituzioni, tra cui il Whitney Museum, a partecipare come artisti. Reena Spaulings è dunque uno e trino: è il personaggio fittizio di un romanzo scritto a più mani dai membri di Bernadette Corporation; è il nome di una galleria nel Lower East Side, ed è pure il nome di un collettivo di artisti. Per complicare ulteriormente le cose, John Kelsey è anche membro di Bernadette Corporation, che come collettivo artistico è rappresentato a New York da…Reena Spaulings. Tra riciclaggio e confusione di identità, non è difficile pensare come tutto questo apparato di ricercatezza polimorfica non abbia fatto altro che incrementare esponenzialmente l’attenzione del mondo su questa strana creatura.
Ma torniamo alla galleria: nonostante le declinazioni multiple del suo nome, Reena Spaulings è senza dubbio uno degli spazi più interessanti in questo momento a New York. Gli artisti rappresentati, tra cui Seth Price, Jutta Koether, Josh Smith, Blake Rayne, Klara Linden, Bernadette Corporation e Claire Fontaine, sono tutti discretamente famosi e si sono avvicendati nelle più recenti mostre internazionali. Lo spazio espositivo, un ex bordello cinese a sud di Canal Street in un palazzo derelitto, aggiunge un tocco alternativo e un po’ decadente che piace ai giovani artisti (tanto per contrastare ancora una volta il white cube di Chelsea) e la programmazione intreccia monografiche e performance a lunghi periodi di improvvisa e non annunciata chiusura. A tutto questo si aggiunge la personalità alquanto evanescente di Emily, la fondatrice, che con sguardo perso nel vuoto e un look degno di un personaggio di Lars Von Trier, appare nelle pagine dei giornali e delle riviste di arte con una frequenza degna di una star televisiva, a volte anche a mutande calate (vedi il sito www.reenaspaulings.com). Come la sua vicina di casa Orchard, questa galleria si presenta come uno spazio alternativo al modello esclusivamente commerciale di Chelsea, anche se, a differenza di Orchard, più distante dalle tendenze modaiole, Rena Spaulings si è lasciata corrompere notevolmente dalle dinamiche del mercato e da quell’allettante surplus di fama che le è arrivato da pubblicazioni come Artforum o il New York Times, che le hanno spesso dedicato pagine di elogi.Orchard e Reena Spaulings rappresentano perfettamente questa nuova creatura ibrida tra l’alternativo e il commerciale. Decisamente più tradizionali, ma non per questo meno interessanti, sono alcuni spazi che hanno aperto qualche anno fa nel Lower East Side e che presentano una programmazione lontana dalle dinamiche e tendenze del mercato. Uno di questi è Participant Inc., uno spazio aperto nel 2001 da Lisa Gangitano in Rivington Street, il cuore pulsante del quartiere. Alternando performance, concerti, progetti site-specific e mostre, Participant Inc. funziona come un laboratorio di approfondimento artistico, dando la possibilità di esporre a New York ad artisti giovani o meno noti, con una flessibilità e libertà che sarebbe loro negata in gallerie più commerciali. A pochi metri di distanza, all’interno dell’Essex Street Market, un mercato coperto gestito prevalentemente da ispanici, si trova Cuchifritos, uno spazio not-for-profit in miniatura. Si tratta solo di una piccola stanza ricavata in un angolo del mercato e aperta su di esso con grandi vetrate. Qui si avvicendano mostre normalmente dedicate alla comunità del quartiere, con un’inclinazione ad affrontare questioni socio-culturali e politiche legate alla coesistenza di una collettività come quella ispanica con i nuovi yuppie di un’area che sta diventando sempre più prospera. Nonostante le limitate dimensioni, Cuchifritos è uno spazio interessante e dinamico, soprattutto data la sua posizione nel mezzo di un mercato affollato e vociante.

Andando poi in direzione di Soho, verso il quartiere dove si trovano gli spazi not-for-profit più celebri e più storici come Artists Space, il Drawing Center, lo Storefront for Architecture e Art in General, ha aperto poco più di un anno fa una galleria che si trova al terzo piano di un palazzo sulla Bowery, su quell’arteria che attraversa Chinatown e che ancora oggi preserva un gusto autentico e un po’ folk. Nascosto tra negozi di forniture per ristoranti e un’agenzia di viaggio cinese, Thrust Projects dedica la propria programmazione a giovanissimi artisti soprattutto europei, e costituisce una nicchia di sperimentazione espositiva che funziona da valida opzione alle mode della città. Infine, solo poche strade più a nord, sempre percorrendo la Bowery, vicino a quello che diventerà il nuovissimo New Museum (apertura alla fine del 2007), si trova Rivington Arms, una galleria commerciale che ultimamente sta ricevendo molta attenzione grazie al lavoro dei suoi artisti emergenti e già di moda, come Dash Snow e Hanna Liden. Aperta nel 2002 da due protagoniste delle riviste patinate come Melissa Bent e Mirabelle Marden (figlia di Brice Marden), Rivington Arms si è in poco tempo distinta nel panorama artistico come una galleria che detta tendenza e che è riuscita in pochissimi anni a fare assurgere i propri artisti a idoli di quella scena underground che ancora palpita tra le pieghe della comunità artistica newyorchese.

Cecilia Alemani, "NOT (ONLY) FOR PROFIT / N.Y.",
MOUSSE Magazine
, January 31, 2007. (In italian)